martedì 26 gennaio 2016

Quali sono gli effetti dell' AD sui familiari?

I caregivers sono coloro che si prendono cura dei propri cari, assistendoli nelle varie fasi della malattia armandosi di strategie, tempo e risorse.
Ci si informa su quale sia il modo migliore per assistere il padre\madre, marito\moglie, ma.. 
Chi si prende cura di voi?




Il benessere psicologico dei familiari dei pazienti AD passa spesso in secondo piano rispetto all' accudito; nonostante la loro attività del "prendersi cura del malato" sia fondamentale, spesso restano al di fuori dell' attenzione. 
Accudire un paziente AD richiede un forte investimento di energie, tempo e risorse che portano ad una stanchezza fisica e psicologica e, spesso, sono proprio gli stessi caregivers a sottovalutare le proprie condizioni psicologiche. 

Essere un caregiver comporta una trasformazione delle proprie abitudini, dello stile di vita, una rinuncia alle attività che prima erano svolte e, talvolta, questi cambiamenti hanno delle evidenti ripercussioni sulle relazioni sociali, coniugali e\o amicali; inoltre spesso i familiari riferiscono di provare emozioni e stati d' animo contrastanti fra di loro come rabbia, senso di colpa, stanchezza e sensazioni di inutilità
Queste emozioni generano una forte tensione che finisce per manifestarsi anche sul piano fisico: mal di testa, problemi gastrici, dolori dovuti alle manovre pesanti che si attuano, disfunzioni immunitarie in seguito al non avere tempo e risorse per curare sè stessi.

Cosa succede dal punto di vista psicologico?

I sintomi più diffusi nei familiari dei soggetti AD sono di tipo depressivo e ansioso; questi dipendono, oltre che dalle risorse interne disponibili, anche da:
- età: un soggetto giovane ha maggiori possibilità di gestire la cura quotidiana;
- stato socio-economico: chi ha più risorse economiche ha la possibilità di delegare i compiti necessari;
- capacità di reperire informazioni: essere informati sulla progressione della malattia frequentando seminari o partecipando a progetti in merito, si ha la possibilità di meglio comprendere cosa accadrà nel prossimo e remoto futuro garantendo un tipo di preparazione agli eventi;
- riferimenti familiari: avere in famiglia qualcuno su cui contare e con cui effettuare una divisione dei compiti riduce lo stress e la tensione che si accumulano nei momenti in cui ci si sente soli in questo percorso.

Cosa fare per arginare il malessere psicologico?

- In primo luogo è necessario delegare compiti e mansioni al fine di non caricarsi di tutti i problemi presenti, riacquistando la possibilità di riprendere in mano la propria vita e svolgere le attività quotidiane affinchè lo stress possa ridursi (prendersi cura di sè, badare alla propria famiglia, lavorare, curare i rapporti sociali, praticare attività fisica e\o ricreativa); 
- Trovare un ambiente sicuro in cui confidarsi: spesso i gruppi di auto-aiuto sono di fondamentale importanza per condividere le proprie emozioni e difficoltà relative alla propria condizione; comunicare le problematiche e non sentirsi soli in questo percorso è di fondamentale importanza al fine di ridurre le preoccupazioni e i sintomi depressivi e ansiosi;
- Informarsi rispetto alla progressione della malattia per non sentirsi impreparati ai prossimi sintomi (che possono o meno verificarsi) investendo del tempo in seminari informativi; informarsi in rete rappresenta un' arma a doppio taglio, pertanto è consigliabile rivolgersi ad un professionista specializzato che possa al meglio rispondere alle vostre domande. 


Quali sono, a vostro parere, altre cause dell' insorgenza di un malessere psicologico nei familiari dei soggetti AD? 
Come combattere questo malessere?


Dott.ssa Fabrizia Tudisco

lunedì 25 gennaio 2016

I disturbi comportamentali nei soggetti affetti da Alzheimer: come comportarsi?

I soggetti affetti da demenza di Alzheimer (AD) mostrano, oltre che una progressiva perdita di autonomia nella gestione delle attività di vita quotidiana e disturbi legati alla memoria, attenzione e percezione, anche dei disturbi comportamentali tra cui: ansia, agitazione, aggressività, disinibizione, deliri, allucinazioni e comportamenti auto/eterolesionisti
Le difficoltà dei familiari di tali soggetti consistono nell' impossibilità di fare i conti con queste manifestazioni, difficili da comprendere e gestire.


Il dosaggio farmacologico è necessario per poter gestire queste manifestazioni, sotto previa consultazione con il medico di riferimento; ai farmaci è però necessario affiancare comportamenti adeguati dei familiari: vediamo insieme quali sono. 


1. Il soggetto non vuole lavarsi: perchè e cosa fare.

Esempio: mio padre\madre non vuole lavarsi: si agita continuamente e spesso diventa aggressivo verbalmente e fisicamente se provo a lavarlo. Cosa devo fare?

Il motivo per cui spesso i soggetti AD rifiutano di lavarsi, o essere lavati, è  legato alla loro deficitaria capacità di giudizio: il soggetto è incapace di comprendere che lavarsi, dopo un determinato periodo di tempo, è necessario per la propria salute e pulizia personale. 
Perchè ci laviamo? Solitamente lavarsi è anche un modo per essere "socialmente desiderabili": un buon profumo, capelli puliti e aspetto desiderabile ci consentono di poter essere avvicinati dalle persone e stabilire dei rapporti sociali. In mancanza di capacità di giudizio\critica, lavarsi diventa superfluo, qualcosa che non si ha piacere a fare e che rende in qualche modo agitati.
Un altro motivo che spesso è causa di un comportamento aggressivo e agitazione nei soggetti nel momento del bagno\doccia, è legato all' agnosia (incapacità di riconoscere gli oggetti); i soggetti AD spesso non riconoscono gli oggetti che li circondano e non ne comprendono\riconoscono l' uso. Questo li spinge ad essere spaventati dagli oggetti che si utilizzano nel momento del bagno e ciò comporta, di conseguenza, comportamenti aggressivi. Pensiamo a come ci sentiremmo e come ci comporteremmo se all' improvviso, senza aver mai visto una doccia, qualcuno ci mettesse li "di forza" e aprisse l' acqua all' improvviso. Allo stesso modo il soggetto, spaventato, si agita e diventa aggressivo.
Spiegare, anche più volte, al soggetto che lavarsi è importante potrebbe essere inutile, specie in una fase avanzata della malattia in cui sopraggiunge l' afasia (difficoltà di comprendere messaggi verbali, ripeterli e produrli). Quando il canale verbale è deficitario, possiamo fare leva sulla capacità di imitazione e sulla capacità di riconoscere le espressioni del volto: possiamo sorridere per esprimere accordo o possiamo noi stessi effettuare i gesti adeguati che vorremmo fossero riprodotti dal nostro caro, così da essere imitati da lui.

2. Il soggetto non vuole mangiare: perchè e cosa fare.

Esempio: mio padre\madre non vuole mangiare: non deglutisce il cibo e si agita continuamente fino a diventare aggressivo se insisto. Cosa devo fare?



In alcuni casi i soggetti AD non hanno la facoltà di riferire cosa provano durante il momento dei pasti, per cui ci risulta difficile comprendere a cosa sia legata l' agitazione o il rifiuto del cibo durante il momento del pranzo\cena. In molti casi all' AD è associata la disfagia, ovvero l' impossibilità o il rallentamento nel deglutire autonomamente a causa di un indebolimento dei muscoli della mascella o in seguito ad effetti collaterali dei farmaci assunti.

Come fare per accudire il malato nel momento del pasto in caso di disfagia? Quando si assiste una persona con disfagia è importante seguire alcuni accorgimenti come:


- dar da mangiare al soggetto mettendolo seduto diritto, con un comodo sostegno per gli avambracci, e i piedi appoggiati a terra. Se il soggetto è a letto, allora il tronco deve essere alzato il più possibile;
- posizionare il capo o il collo, in base alla fase della deglutizione deficitaria, in diverse posizioni per facilitare o proteggere la discesa del cibo;

- consumare il pasto in un ambiente tranquillo, silenzioso e ben illuminato;
- aiutare il soggetto a mangiare lentamente, rispettando per ogni singolo boccone il volume consigliato e non introdurne un secondo se quello precedente non è stato completamente deglutito;
- far eseguire colpi di tosse volontari a intervalli regolari per liberare le vie aeree superiori dall’eventuale presenza di residui di cibo;
- evitare che, durante la somministrazione del cibo, il soggetto cambi posizione alzando, per esempio, la testa verso l’alto;


3. Tentativi di fuga dalla propria casa: perchè e cosa fare.


Esempio: mio padre\madre, quando agitato, vuole uscire di casa e non riesco a controllarlo; cosa devo fare?


"Sentirsi a casa" rappresenta una condizione in cui il soggetto si sente rassicurato: l' ambiente, gli oggetti e le persone a lui familiari lo rassicurano e placano lo stato di ansia. Quando, però, l' ansia prende il sopravvento il soggetto sente la necessità di andare via, uscire, senza sapere dove e senza avere un obiettivo preciso. In queste circostanze spesso si perde, non riconosce le strade e diventa un "vagabondo" disorientato. Per arginare questo problema è necessaria una cura psicofarmacologica che agisca sull' ansia e che "calmi" il soggetto al fine di prevenire tali comportamenti di fuga.

4. Confusione e agitazione che sopraggiungono specialmente di sera: perchè e cosa fare.

Esempio: mio padre\madre, durante la sera, manifesta maggiore agitazione e non riesce a dormire; cosa devo fare?

Solitamente nei soggetti AD si manifesta la "sindrome del tramonto", ovvero durante la sera sembrano più confusi rispetto alla mattina. Anche noi la sera, dopo che il nostro cervello ha lavorato tanto, ci sentiamo stanchi; questo accade anche nei malati AD: essere esposti a stimoli sensoriali (vedere e sentire quello che accade intorno a lui) provoca un senso di stanchezza dovuto al lavoro che il cervello fa per ricevere tali input. Altro motivo per cui di sera è facile che i soggetti AD siano confusi è quello legato alle ridotte afferenze sensoriali visive: di sera la nitidezza delle cose che vedono diminuisce e questo, nel malato, si traduce in confusione.
Cosa fare? Potrebbe rivelarsi utile aumentare la luminosità durante tutta la giornata e anche di sera; questo influisce positivamente anche sulla capacità di dormire di più durante la notte (se in questo modo, infatti, riusciamo a debellare in un certo senso l' agitazione psicomotoria, sarà possibile che uno stato di minore agitazione influirà sul sonno notturno, migliorandolo)


Quali sono altri problemi comportamentali che si manifestano e che sono molto difficili da gestire?


Sarò lieta di rispondere alle vostre domande.




Dott.ssa Fabrizia Tudisco

mercoledì 13 gennaio 2016

Cosa accade successivamente alla rottura di una relazione?

La fine di una relazione rappresenta un evento difficile da elaborare: perchè? 


Vorrei iniziare a trattare questo tema proponendo un caso clinico da me seguito e, successivamente, argomentarlo seguendo ciò che ho imparato dalla mia esperienza professionale:

S. ha 24 anni ed è una studentessa universitaria; S. aveva una relazione stabile da tre anni con un ragazzo della sua età con cui condivideva il suo percorso accademico (entrambi iscritti allo stesso corso di laurea), passioni e sogni di un futuro insieme. S. si reca presso la struttura in cui esercitavo riferendo di sentirsi molto giù a causa della rottura con il suo fidanzato, avvenuta tre mesi prima dell' incontro con me. S. era delusa dal comportamento poco chiaro del suo ex fidanzato che non le ha mai dato una spiegazione a lei comprensibile riguardo i motivi della rottura della loro storia. S. era costretta, date le circostanze, ad avere un continuo rapporto con lui durante i corsi universitari: "continuare a vederlo mi fa arrabbiare; io lo saluto e lui è distaccato". Nonostante i suoi sforzi di far sembrare ad amici e familiari di "essersi ripresa", S. continua in seduta a parlare incessantemente del suo ex partner, facendo trasparire la sua rabbia e il suo dissenso. Anche quando mi proponevo di affrontare altri argomenti, S. rimandava tutto a quel lui che le aveva "spezzato il cuore": lo appellava come "incoerente e inaffidabile"; non riusciva a parlare d' altro. S. si era socialmente ritirata, passava le giornate in camera sui libri e non coltivava più i suoi interessi e le sue relazioni interpersonali. 

Il caso di S. rappresenta un esempio comune di relazioni finite, spesso senza comprenderne i motivi, che hanno effetti negativi sulla nostra vita e che ci portano a pensare ricorrentemente "a cosa è successo e perchè". 

La fine di una storia, più o meno lunga, rappresenta uno "stato di transizione" che ci porta verso una nuova condizione: dall' essere "noi" - coppia, al "noi" - soli . Elaborare questo status ha bisogno di tempo e può risultare complesso.

Quali sono le fasi di questa elaborazione?

1) In un primo momento, possiamo dire che ciò che sopraggiunge è uno "stato confusionale" che può essere indice di vari aspetti: non capire le ragioni per cui ci troviamo in questa situazione o avere ripensamenti sulla scelta presa; pensare di dover cambiare il proprio stile di vita che precedentemente era adatto alla coppia, su cui ora non possiamo più fare affidamento; scegliere "a chi affidarci" per promuovere il confronto e sentirci meno soli in questo percorso di cambiamento.

2) Successivamente, per metabolizzare i nostri vissuti, anche attraverso il confronto con amici e parenti con cui ci consultiamo e ci apriamo, tendiamo a "rimettere in tavola" tutto quello che è successo, cercando di trovare i motivi per cui siamo giunti a questa separazione dall' altro. Spesso questo processo tende ad essere razionalizzato o, al contrario, infittito dalle emozioni provate in quel momento; risulta per questo complicato riuscire ad analizzare con distacco l' accaduto.
Questo è ciò in cui S. ha trovato maggiori difficoltà: ferita e amareggiata non riusciva a razionalizzare l' accaduto e in ogni momento portava fuori i suoi sentimenti, principalmente di rabbia. Dopo due mesi S. tendeva sempre meno a "demonizzare" l' ex partner trovando invece utile marcare i motivi per cui "è stato meglio che mi abbia lasciata, una persona così non è affidabile e io non voglio una persona inaffidabile nella mia vita". 

3) Una volta che, come S, sopraggiungiamo all' analisi che più ci sembra adeguata, o che più rispecchia il modo in cui noi stessi maggiormente riusciremmo ad accettare la nostra condizione, c' è una fase in cui dobbiamo prendere consapevolezza del distacco, fisico ed emotivo, dall' altro. Dobbiamo riuscire ad accettare di non avere più il "controllo" su quella persona; non facendo più parte della nostra vita non possiamo venire a conoscenza delle sue attività, dei suoi pensieri e del modo in cui sta affrontando la situazione. Nel caso di S., come spesso accade, era impossibile elaborare il "lutto" (lutto inteso come la consapevolezza che l 'altro non fa più parte della nostra vita) in quanto spesso accadeva che incontrasse il suo ex partner in luoghi quali l' università. In quel caso elaborare il distacco diventa più difficile; pensiamo, appunto, all' elaborazione del lutto: questo è possibile solo perchè il "morto" non è più nelle nostre vite e, con il tempo, ci adattiamo a quell' assenza. Quando questo processo è impossibilitato da situazioni più grandi di noi che sfuggono al nostro controllo, questa fase potrebbe persistere per un tempo maggiore rispetto a quanto ci si aspetti, motivo per cui per S. non è stato facile passare alla fase successiva, se non dopo sei mesi.

4) Accettata l' assenza dell' altro, giungiamo ad una fase di sfiducia: tendiamo a pensare di non voler più soffrire come abbiamo fatto in precedenza, specialmente poichè è stato difficile superare la nostra situazione. Tendiamo a non fidarci degli altri, ad evitare i contatti o le relazioni profonde per paura di soffrire. Questa fase potrebbe anche rivelarsi assente in alcune persone che, al contrario, per un bisogno interno, tendono a unirsi con altri partner piuttosto che affrontare la solitudine.
S. aveva la possibilità di accettare degli inviti ad uscire da parte di un ragazzo che da tempo la corteggiava; S. rifiutava tali incontri perchè convinta di "dover stare da sola" non sentendosi capace di reinvestire in un altro rapporto.

5) L' ultima fase è rappresentata dal reinvestimento emotivo: superata la sfiducia, i rapporti interpersonali profondi non hanno più un retrogusto amaro e, preso atto delle nostre esperienze passate, reinvestiamo in un altro partner sperando di non incorrere negli errori precedenti (se di errori ne abbiamo riconosciuti). 

Elaborare la separazione non rappresenta un' esperienza facile da superare; all' inizio tutto può sembrare negativo e ci chiudiamo in noi stessi per paura di soffrire ancora. Il tempo aiuta a metabolizzare i vissuti, i sentimenti e le aspettative e, una volta pronti a reinvestire, nonostante la ferita che comunque ci portiamo dietro, saremo pronti ad affrontare nuove esperienze.



Quali sono le maggiori difficoltà che sopraggiungono, secondo voi, successivamente alla rottura di una storia? 

E' possibile "non soffrire"? 



Dott.ssa Fabrizia Tudisco 


venerdì 8 gennaio 2016

Separazione coniugale: cosa dire ai propri figli?



Ci separiamo! Cosa dire a nostro figlio?

Le percentuali di coppie con figli che si accingono alla separazione sono sempre più alte. I motivi sono molteplici e i conflitti che ne derivano sembrano essere inevitabili.
Gli effetti della separazione

Sentiamo spesso dire che la separazione dei genitori può rappresentare un trauma per i nostri figli e per questo tendiamo a procrastinare questa decisione in vista dei possibili effetti negativi che temiamo possano abbattersi sui figli. Questo comporta, nonostante le buone intenzioni, che le tensioni in famiglia aumentino e con loro anche i litigi. Questa negatività è quella che maggiormente influenza il bambino che, in quanto piccolo adulto, percepisce le tensioni e i conflitti e tende a soffrirne spesso, come succede nella maggioranza dei casi, attribuendosi le colpe di ciò che sta accadendo, sforzandosi di rimediare. 
Nonostante le preoccupazioni dei genitori, studi dimostrano che l' incidenza che i bambini di genitori separati possano incorrere in disturbi importanti non è superiore alla possibilità che questi possano manifestarsi in bambini che vivono in famiglie unite.
Se questi disturbi si manifestano, è dimostrato che la causa è da ricercare nel fatto che la coppia si è separata "male" e, talvolta, nella concomitanza di eventi di varia natura, economica, sociale, ecc, che prescindono dalla separazione stessa.
Statisticamente è possibile osservare che i probabili effetti della separazione nei bambini si risolvono spontaneamente dopo due anni; è in questo tempo, infatti, che avviene, se sollecitata adeguatamente, la maturazione\comprensione della separazione. Tale comprensione deve essere supportata dai genitori che devono, necessariamente, aiutare il bambino a comprendere il motivo della separazione, rassicurandolo emotivamente, eludendo il rischio che possa pensare sia stata "colpa sua".

Cosa dire ai propri figli?

Il primo passo è quello di trovare un accordo tra i coniugi rispetto al "cosa" dire; fare in modo che entrambe le parti raccontino una stessa versione dei fatti, possibilmente il più oggettiva possibile, tralasciando la rabbia del momento, è il primo step da affrontare. Se al bambino venissero raccontate versioni differenti si incorrerebbe nel rischio di confonderlo e lo si porterebbe a credere che nessuno dei due genitori gli stia dicendo la verità. Non conoscere la verità può alimentare la sua convinzione di essere causa dei frequenti litigi, e può costituire il rischio di alimentare il senso di colpa.
Il secondo passo è quello di trovare il momento giusto per comunicare al proprio figlio la scelta di separarsi; trovare il momento giusto potrebbe rivelarsi un arduo compito poichè qualsiasi momento potrebbe sembrare non opportuno. Potrebbe essere utile creare un clima disteso e trovare un momento in cui non ci sono forti pressioni esterne che potrebbero maggiormente stressare il bambino, magari già preoccupato per altri motivi (litigi con i pari, situazione scolastica non ottimale, ecc.).
Una volta trovati l' accordo e il momento opportuno, è necessario passare alla fase più difficile: DIRE LA VERITA'; trovare scuse plausibili per la prossima separazione, potrebbe comportare uno stato confusionale nel bambino in cui potrebbero nascere aspettative che potrebbero non vedere mai un' effetiva realizzazione.

Ci sono verità che non possono essere dette?
In alcuni casi pensiamo che la verità sia troppo imbarazzante e complessa perchè possa essere detta, non solo ai nostri figli, ma anche alle persone a noi care. Nascondere la verità perchè ci imbarazza ci porterà a costruire bugie dalle quali sarà poi impossibile sfuggire dal momento che porteranno molte domande alle quali non possiamo non rispondere. 

Dire la verità, trovando il modo giusto per farlo, è la cosa più opportuna da fare, filtrando, quando necessario, informazioni che potrebbero essere irrilevanti e reprimendo la nostra volontà di volerci sentire dalla parte della ragione, cercando di tutelare entrambe le figure genitoriali, perchè possano continuare ad avere il rispetto del proprio figlio. 

Esempio: "Mamma e papà hanno deciso di non vivere più insieme perchè non vanno d' accordo e litigano spesso; per stare bene abbiamo deciso che mamma\papà andrà a vivere in un' altra casa, ma tu potrai vederla\o quando vuoi; delle cose cambieranno ma tu non devi preoccuparti perchè continueremo ad essere entrambi i tuoi genitori"

Come ho già accennato nelle righe precedenti, rassicurare emotivamente il bambino è uno step fondamentale; il bambino deve sentirsi al sicuro nonostante i genitori non siano più insieme e deve sapere di poter contare su di loro, come ha fatto fino ad ora. In questo caso è necessario sviluppare l' intelligenza emotiva.

Quali sono le cose che dobbiamo evitare di dire al bambino? 
Come abbiamo già potuto constatare, dire la verità è la soluzione migliore perchè la situazione della separazione possa essere meglio compresa dal bambino. Tuttavia è necessario sottolineare quanto sia importante cercare di preservare il rapporto con l' altro genitore evitando di descriverlo come marito\moglie e genitore inefficace e inaffidabile. Molto spesso, infatti, nelle coppie in fase di separazione, o post separazione, dove tale decisione è  presa da solo una delle due parti, si assiste alla "demonizzazione" dell' altro, al fine di allontanare il bambino da tale figura, anche per via di una vendetta personale. Mettere al primo posto il benessere psicologico del bambino non deve mai essere messo in secondo piano rispetto al nostro bisogno di rivalsa nei confronti dell' altro. 

Esempio: "Mamma\Papà he deciso di andarsene perchè è egoista e non ti vuole bene!"

Questo genere di affermazione produce un benessere personale a breve termine che entra, però, in conflitto con il nostro ruolo di genitore che è quello di preservare il benessere psicologico del bambino, che va rassicurato; nonostante i dissapori, i suoi genitori saranno sempre in grado di badare a lui, seppur non più insieme.

In conclusione possiamo dire che scindere il ruolo di partner o ex partner dal ruolo genitoriale rappresenta un passo fondamentale che garantisce ad entrambi i genitori la possibilità di non riversare i sentimenti negativi legati alla relazione conclusa sul bambino, garantendone il benessere psicologico.


A questo punto, la domanda che potrebbe essere posta è:
Come si sente il bambino nella sua condizione di figlio di genitori separati rispetto al mondo esterno?

Prossimamente tenteremo di aprire una discussione in merito a questo argomento.

Dott.ssa Fabrizia Tudisco

La stimolazione cognitiva: come allenare il cervello e perchè?


Nella società odierna, in cui le patologie neurodegenerative sono in costante aumento, si rivela importante capire quali sono i metodi più efficaci al fine di stimolare le capacità cognitive residue nei soggetti affetti da demenza al fine di migliorare la loro qualità di vita e quella dei familiari che se ne prendono cura. 


Come ho già scritto nel post precedente, le malattie neurodegenerative non possono essere curate con i farmaci, ma esiste la possibilità di promuovere una ri-organizzazione delle aree cerebrali coinvolte, rinforzando le capacità cognitive residue che vanno a compensare quelle meno attive. Questo ci consente di potenziare l' efficienza cognitiva e di migliorare significativamente l' umore del soggetto coinvolto. Risulta, infatti, molto importante curare l' aspetto dell' umore in quanto la depressione, spesso reattiva allo stato di malattia, è causa di una maggiore progressione del peggioramento delle funzioni cognitive. 

Quali sono le tecniche di stimolazione cognitiva e a cosa servono?

1) Un primo esempio di stimolazione cognitiva è rappresentata dalla ROT (terapia di ri-orientamento nella realtà) che è la più utilizzata per soggetti con un decadimento cognitivo lieve o moderato; questa terapia mira a modificare i comportamenti non adeguati, ridurre l'isolamento e rinforzare le informazioni del soggetto rispetto alla propria storia, identità e rispetto al contesto.

Come si applica la ROT?

- orientare il soggetto nel tempo, stimolando i ricordi del giorno, mese, anno, servendosi di lavagnette sulle quali scrivere il giorno di riferimento;
- orientare il soggetto nello spazio, stimolando il ricordo di spazi, percorsi e luoghi di incontro, servendosi di cartelli specifici che indicano, ad esempio, le varie stanze della casa (es; bagno, cucina, stanza da letto, ecc);
- orientare il soggetto rispetto a sè stesso, attraverso la stimolazione della propria storia personale con l' aiuto di foto, documenti, diari e con il racconto della storia personale.

I familiari possono essere d' aiuto cercando di stimolare, quotidianamente, questi tre tipi di orientamento e possono fare affidamento ad un professionista che svolgerà tale stimolazione in un tempo standard di 45 minuti durante incontri individuali o di gruppo. Svolgere queste attività in gruppo favorisce la socialità e riduce i rischi del ritiro sociale e della depressione. 

2) Un altro esempio di stimolazione cognitiva è quello rappresentato dal Metodo Validation, di impronta psicoanalitica che mira a stimolare l' affettività del soggetto: condividere attraverso la verbalizzazione i propri sentimenti durante la terapia; questo incentiva, oltre che la comunicazione verbale, l' occasione di sperimentare un proprio ruolo sociale e aumentare la consapevolezza di sè e della propria storia personale.

3) Terzo esempio di stimolazione cognitiva è il programma Our Time; questa terapia è diretta alla persona e non alla sua patologia; la scelta delle attività è conseguente a quanto queste siano adeguate per l' individuo o gruppo di riferimento; incentiva il gioco e il divertimento, utilizza la reminescenza e la stimolazione multisensoriale e favorisce la socialità mettendo in relazione i componenti del gruppo.


Allenare in questo modo il cervello è di grande aiuto quando i soggetti con decadimento cognitivo lieve\moderato iniziano a manifestare sintomi cognitivi e comportamentali. 
Aiutare i soggetti attraverso queste terapie è di fondamentale importanza per aiutarli a condurre una vita dignitosa, fornendogli le strategie necessarie per continuare a sentirsi parti utili della società in cui sono inseriti, per non sentirsi un peso per i propri familiari e per diminuire il rischio di incorrere in patologie depressive che causano ritiro sociale e peggioramento delle funzioni cognitive. 



Qual è, secondo voi, il metodo più utile per stimolare le funzioni cognitive? 
Quali sono le principali difficoltà in cui i soggetti con decadimento cognitivo incorrono? e quali quelle dei loro familiari? 



Dott.ssa Fabrizia Tudisco




              

Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2014/07/stimolazione-cognitiva-demenza/


L' intelligenza emotiva



Sembra che la gente sia convinta che la cosa più intelligente da fare sia non provare alcuna emozione, ma è veramente così? Spesso imponiamo a noi stessi di essere razionali, di guardare le cose da un punto di vista oggettivo, senza farci "trascinare" dalle nostre emozioni. 
Ci diciamo che per superare al meglio le situazioni che la vita ci propone sia necessario essere intelligenti e sfruttare al meglio la nostra razionalità; ma l' intelligenza è tutto? 
Scopriamo insieme cosa significa essere intelligenti sfruttando anche un altro aspetto delle nostre funzioni: le emozioni.



Cos'è l' intelligenza emotiva?

L' intelligenza emotiva è un aspetto dell' intelligenza legata alla capacità di provare emozioni, riconoscerle e viverle in modo consapevole
La consapevolezza delle proprie emozioni è un elemento fondamentale per vivere una vita sociale appagata fondata sull' intescambio e sulla capacità empatica
L' utilizzo di questa forma di intelligenza si fonda sulla capacità di intuire i sentimenti, le aspirazioni delle persone che ci circondano ed avere una piena cognizione del proprio stato d' animo. 
Viene definita quindi come la capacità di monitorare i propri stati emotivi e quelli altrui.

Quali sono le caratteristiche dell' intelligenza emotiva?

Secondo Daniel Goleman, psicologo, scrittore e giornalista statunitense, l' intelligenza emotiva ha cinque caratteristiche fondamentali:

- consapevolezza di sè: riconoscere le proprie emozioni
- dominio di sè: utilizzare i propri sentimenti per un fine
- motivazione: scoprire il vero motivo che spinge all' azione
- empatia: sentire gli altri
- abilità sociali: capacità di stare insieme agli altri

Perchè l' intelligenza emotiva è oggetto di studio?

Il quoziente intellettivo (QI) è sicuramente un requisito fondamentale per lo sviluppo adeguato dell' individuo e per il raggiungimento del proprio successo, personale, accademico e professionale. I test che misurano il QI, però, hanno presentano molti limiti: possono, ad esempio, misurare il profitto scolastico o lavorativo, ma non possono predire il successo negli stessi ambiti. Proprio per questi limiti si sta lavorando alla costruzione di una scala che misuri il quoziente emotivo (QE). 
Potremmo quasi dire che l' intelligenza emotiva sia un prerequisito fondamentale per il corretto sviluppo dell' individuo: abbiamo bisogno di imparare e definire i nostri e altrui sentimenti, bisogni, riuscire a conciliarli con i nostri obiettivi e con quelli delle persone che fanno parte,o vogliamo che facciano parte, della nostra vita; abbiamo la necessità di motivare noi stessi e mobilitare le nostre risorse, interne (energia, tenacia, capacità di ripresa) ed esterne (empatia, riconoscimento delle emozioni degli altri, comunicazione).
Quanto vi reputate emotivamente intelligenti?

L' intelligenza emotiva in ambito familiare

In ambito familiare l' intelligenza emotiva costituisce un importante aspetto per un efficiente rapporto, oltre che tra partner, sopratutto tra genitore-figlio. 

Uno dei problemi più frequenti dei genitori è quello di non riuscire ad essere consapevoli delle emozioni del proprio figlio; prima di diventare consapevoli dobbiamo fare un' attenta analisi delle nostre emozioni; il modo in cui percepiamo e riconosciamo le emozioni dipende dal modo in cui noi stessi siamo stati educati, dalla nostra storia familiare. Possiamo essere bravi genitori nel riconoscimento di emozioni che noi stessi troviamo familiari in quanto sperimentate in prima persona, ma potremmo essere meno capaci verso altri tipi di emozioni di cui abbiamo meno esperienza. Diventare genitori emotivamente intelligenti per nostro figlio pressupone, in primo luogo, un' attenta analisi di noi stessi, delle nostre emozioni, bisogni e aspettative che, da bambini, sperimentavamo e capire come avremmo voluto che i nostri genitori si rapportassero ad esse. 

Partiamo con un esempio pratico:
Figlio: "mamma\papà sono tanto arrabbiato perchè Giorgio non mi ha invitato alla sua festa di compleanno"

Voi come vi rapportereste a questo tipo di emozione?
In questo caso l' emozione di vostro figlio è la rabbia. Ripensiamo a quando NOI a quell' età ci sentivamo arrabbiati: cosa provavamo? cosa avremmo voluto? come speravamo che i nostri genitori accogliessero quel momento?
Proviamo a pensare di rispondere, come spesso accade:

Madre\Padre: "dai non fa niente, che ti arrabbi a fare? sono sciocchezze, non pensarci!"

Questa risposta induce un senso di "svalutazione" delle emozioni da parte del bambino che "non si sente capito" e tenderà, in futuro, a non comunicare ulteriori emozioni provate.
Mettersi nei panni dell' altro, dunque, sperimentare empatia e riconoscere i bisogni dell' altro è il primo passo per essere genitori con una efficace intelligenza emotiva. 
Una risposta come:

Madre\Padre: "hai proprio ragione, anche io sarei molto arrabbiato per lo stesso motivo, capisco cosa provi"

potrebbe rivelarsi, invece, più efficace; tale risposta riconosce l' emozione di rabbia del bambino che percepisce comprensione ed empatia e tenderà ad aprirsi e comunicare i propri sentimenti anche in futuro.

ATTENZIONE: questo non significa "assecondare" tutte le esigenze dei propri figli; queste vanno sì accolte, ma in alcuni casi anche contenute ( "mamma\papà avrei proprio voglia di picchiare Giorgio per questo": questo tipo di rabbia va ascoltata ma contenuta allo stesso tempo).

Quali sono quindi i passi fondamentali da rispettare?
1. Ascoltare e riconoscere le emozioni del proprio figlio
2. Provare a mettersi nei suoi panni, essere empatici, ricordando le proprie esperienze 
3. Insegnare al proprio figlio quali sono le parole necessarie a definire le emozioni che prova
4. Porre dei limiti, se necessario, aiutando successivamente il proprio figlio a risolvere il problema

L' intelligenza emotiva in ambito del lavoro

Quando qualcuno ci chiede "cosa serve per avere successo in ambito lavorativo?" noi spesso rispondiamo: "un eccellente curriculum, un percorso accademico brillante, esperienze formative rilevanti".

Ma questi elementi sono sufficienti perchè si possa avere successo a lavoro?

L' ambiente di lavoro è un ambito in cui è importante non solo manifestare un' intelligenza logica e astratta, ma anche competenze meno "fredde" tra cui: la capacità di creare rapporti costruttivi, affidarsi agli altri potenziando le emozioni positive che intercorrono tra colleghi o deviando quelle distruttive, essere ottimisti, avere spirito di iniziativa ed essere adattabili. Tutti questi elementi fanno parte delle capacità di un lavoratore con un' efficiente intelligenza emotiva.

L' adattabilità è, a mio parere, la caratteristica che più ci consente di vivere "al meglio" nel nostro ambiente lavorativo. Spesso siamo insoddisfatti per le mansioni che ci assegnano, per la ripetitività dei nostri compiti e delle dinamiche che intercorrono in ufficio, per l' atteggiamento dei nostri manager e per le "ingiustizie" a cui assistiamo. Essere adattabili non significa essere "passivi", ma piuttosto mettere in atto strategie che possono aiutarci a superare le difficoltà lavorative prevenendo il burnout
Anche l' automotivazione ci aiuta quotidianamente nel superamento delle difficoltà lavorative: una buona capacità ad automotivarsi alimenta la nostra capacità di reagire agli insuccessi, stimolando un atteggiamento ottimistico, spirito di collaborazione e di iniziativa. Questo ci permetterà poi di perseverare negli sforzi e riuscire a modificare in corsa i propri piani in caso di insuccesso, o se questi tardassero ad arrivare.

Cosa spinge la maggioranza delle persone ad essere insoddisfatte del proprio lavoro?





Attendo commenti costruttivi e domande a cui sarò lieta di rispondere.

Dott.ssa Fabrizia Tudisco











giovedì 7 gennaio 2016

Adolescenza: difficoltà genitoriali nella gestione del figlio che cambia, cresce e si ribella

La relazione genitore-figlio è da sempre considerata come una delle più difficili da instaurare, mantenere e comprendere. Le avversità che incorrono riguardano le difficoltà di comunicazione, la differenza di ruoli, l' età che separa le due generazioni che comporta una differente visione del mondo e la necessità, da entrambe le parti, di sopraffare l' altro, imponendo regole e cercando di eluderle.



Il conflitto genitore-figlio è un passaggio che sembra inevitabile e, per questo, tanto temuto da coloro i quali hanno figli che stanno per diventare adolescenti.

Cos'è l' adolescenza?

L' adolescenza può essere considerata come sinonimo di cambiamento: maturazione fisica, emotiva, cognitiva e sociale in cui si assiste al complesso processo di strutturazione dell' identità, anche sessuale. 
La strutturazione dell' identità avviene attraverso i rapporti interpersonali: il ragazzo si allontana dal nucleo familiare per riuscire a inserirsi e affermarsi nella sua realtà sociale, spesso infrangendo le regole imposte dai genitori al fine di ottenere, oltre che il ruolo di figlio, anche quello di individuo indipendente imitando i pari e seguendo le regole sociali che più favoriscono il suo inserimento. 

Da cosa nasce il conflitto?

Dai colloqui effettuati con i genitori di figli adolescenti, ho evinto che le difficoltà più grandi nascono da mancanza di comunicazione e\o da una comunicazione che avviene su livelli gerarchici differenti: i genitori hanno spesso "paura" di parlare ai propri figli credendo di incorrere nel rischio di "dire cose sbagliate", "favorire maggiore allontamento", e sentirsi dire di "farsi i fatti suoi"; tendono ad essere direttivi e autoritari, senza ascoltare le necessità e il punto di vista dei figli, dicendo loro e a sè stessi che tale atteggiamento è giustificato dalla credenza di sapere cosa è meglio per loro. 

Come diventare genitori che ascoltano?

Perchè una famiglia sia funzionale e affinchè ci sia comunicazione tra genitore e figlio, è necessario in primo luogo ricordarsi di cosa noi stessi, da adolescenti, avremmo voluto, desiderato e come avremmo voluto che fossero i nostri genitori. Cosa desideravamo che ci chiedessero i nostri genitori? Come avremmo voluto che si rapportassero a noi? I nostri genitori sono stati degli ascoltatori attivi o passivi? 
Dobbiamo diventare ascoltatori attivi, che non sentono con le orecchie, ma con i ricordi e comprendere ciò che i nostri figli vogliono comunicarci mettendoci nei LORO panni, comprendendo cosa desiderano e perchè: capire quando un atteggiamento che ci contraria vuole essere di richiesta di attenzione, quando è sintomatico di un atteggiamento oppositivo o quando rappresenta un segnale di aiuto. 

Quali sono gli errori più comuni?

Spesso da genitori siamo direttivi con i nostri figli, imponendo le nostre regole e i nostri desideri in modo che essi possano diventare ciò che noi vogliamo, trascurando quello che essi invece sono, stanno diventando e che vorrebbero essere. Essere un buon genitore per i nostri figli significa riuscire ad accettarli per quello che sono, rispettandone i desideri e cercando di fornirgli tutti gli strumenti utili affinchè abbiano la possibilità di scegliere, in base alle opportunità che gli offriamo, la strada giusta per loro, anche se questa differisce da quella che ci eravamo prefissati.

Quali sono, invece, gli errori che voi credete siano quelli più comuni e significativi da parte dei genitori e cosa nascondono i comportamenti conflittuali degli adolescenti nei confronti dei loro genitori?


"Bravi" genitori si è o si diventa?

Cosa un adolescente vuole veramente ottenere con i suoi comportamenti?


In attesa di vostri commenti in merito all' argomento,
Vi saluto affettuosamente. 




Dott.ssa Fabrizia Tudisco                                  






Le relazioni di coppia: le chiavi di una relazione efficace

Come nascono e da cosa sono composte le nostre relazioni di coppia? Come capire quando la nostra è una relazione efficace? 

Come nascono le relazioni ?         

Qualunque tipo di relazione, più o meno profonda, nasce dal bisogno di condivisione; condividere interessi, sentimenti, emozioni, abitudini. Possono nascere da incontri casuali e inaspettati, o in seguito ad una ricerca mirata messa in atto per appagare il senso di solitudine che, sopratutto nella società odierna, assale la maggioranza delle persone. 



Quali sono gli elementi fondamentali che costituiscono una relazione efficace ?


Fiducia
 Reciprocità
Comunicazione
 Condivisione
Impegno

Fiducia

Fiducia è credere o non credere nella lealtà di una persona, in modo irrazionale, che può sconvolgere la realtà: ci fidiamo del nostro partner al punto di "non vederlo per quello che è" o, al contrario, non ci fidiamo di lui\lei al punto di mettere in dubbio le sue parole. La fiducia, come spesso si dice in giro, va conquistata ma, talvolta, il nostro atteggiamento è influenzato da esperienze e emozioni passate che influenzano il nostro comportamento. Per un' esperienza negativa passata tendiamo a non fidarci del nostro partner a prescindere dalla realtà dei fatti, compromettendo la relazione fino ad un punto di non ritorno. 

Perchè fidarsi?  Questa domanda ha tante risposte, a mio parere, non oggettive; dipende da quanto siamo disposti a metterci in gioco, quanto possiamo o vogliamo rischiare, mettendo sul piatto della bilancia cosa vogliamo e cosa il partner è disposto a darci. Fidarsi di qualcuno è un investimento emotivo che porterà o non porterà i suoi frutti, ed è per questo che talvolta ci fermiamo a porci domande mettendo freni ai rapporti che costruiamo.

Voi quanto vi fidate del vostro partner e perchè?

Reciprocità

Reciprocità è instaurare un rapporto paritario in cui entrambe le parti danno e ricevono in modo bilanciato in termini di emozioni, tempo e investimento di risorse. Molto spesso ci lamentiamo per quanto non riceviamo dall' altro, ma noi quanto siamo disposti a dare? Il nostro è un rapporto paritario?

Comunicazione

La comunicazione è forse il pilastro più importante su cui l' intera relazione si fonda. Comunicare con il proprio partner non significa esclusivamente "dire" qualcosa, ma anche "come". Comunicare è sicuramente importante per una coppia che funzioni: raccontarsi le giornate, parlare di interessi comuni, fare gossip, ma la comunicazione avviene su più canali, verbali e non verbali. 
Quante volte ci sentiamo paranoici dal momento che ci accorgiamo che "qualcosa è cambiato"? Queste sensazioni nascono da cambiamenti percepiti specialmente su un livello comunicativo: "non mi dice più nulla", "non parliamo più come prima", "non mi guarda più con gli stessi occhi". 
Sicuramente la comunicazione in una coppia, così come il rapporto tutto, è in costante cambiamento, ma quando dobbiamo preoccuparci rispetto al fatto che la situazione ci stia sfuggendo di mano?

Condivisione
Condividere è, specialmente in una prima fase del rapporto, l' esperienza più emozionante di una coppia. Condividere passioni, amicizie, idee, progetti. 
Ma quando la condivisione diventa poi oppressione? La fase di condivisione va costruita in maniera cosciente. Molte volte, nelle nostre prime esperienze, ci saremo resi conto di aver impostato un rapporto in cui si condivideva "un po' troppo", tanto da non riuscire ad avere spazi personali indipendentemente dal partner. Questa impostazione diventa, successivamente, difficile da cambiare poichè radicata, al punto che ci si sente "prigionieri" di un rapporto. Questo tipo di impostazione è tipico sopratutto dei rapporti che nascono in fase adolescenziale, quando l' amore è per noi una novità che ci toglie il fiato e in cui vogliamo buttarci a capofitto. Crescendo poi capiamo quanto sia importante conservare i propri spazi, le proprie abitudini, continuando a condividere con l' altro, ma senza concedere l' esclusiva. Quanto è importante quindi conservare i propri spazi?

Impegno
Per impegno non intendo necessariamente la monogamia, ma piuttosto quell' impegno che ci porta a pensare alla nostra vita in funzione dell' altro. Questo punto è quello più difficile da applicare, specialmente per persone che tengono molto alla propria indipendenza. Quanto siamo disposti ad impegnarci in un rapporto e quanto crediamo in esso? 




E voi quale altro aggettivo aggiungereste per definire una relazione?

Quali sono i segreti di una relazione efficace?
Come capire quando il nostro non è un rapporto che può sperare in un futuro?


Non vedo l' ora di rispondere alle vostre domande e di iniziare interessanti discussioni in merito.




Dott.ssa Fabrizia Tudisco                    



mercoledì 6 gennaio 2016

Demenza di Alzheimer e impatto sui care givers

La malattia di Alzheimer è tra le più frequenti delle demenze e, secondo statistiche mondiali, si prospetta che nel 2050 un soggetto su 80 della popolazione ne sarà affetta.




Cosa comporta la demenza di Alzheimer (AD)?


La demenza d' Alzheimer ha un andamento abbastanza imprevedibile rispetto ai tempi del decorso della malattia e alle aree cerebrali coinvolte che comportano deficit cognitivi.
Il decorso più comune parte dalle aree temporali che coinvolgono le funzioni mnesiche per poi arrivare alle aree frontali (disturbi del comportamento e deficit delle funzioni esecutive), alle aree parietali (percezione del proprio corpo e dello spazio circostante alterate), per poi raggiungere le aree occipitali che coinvolgono il riconoscimento dei volti, anche dei propri familiari.

Queste alterazioni neurologiche, le cui cause sono ancora oggetto di studio, comportano deficit evidenti che causano cambiamenti significativi nella vita del soggetto che non è più in grado di gestire autonomamente le faccende di vita quotidiana:

- il soggetto è disorientato nel tempo e nello spazio per cui facilmente si perde se non accompagnato;
- non ricorda eventi recenti;
- presenta alterazioni del comportamento sul versante apatico o disinibito;
- non riesce a gestire il denaro;
- ha difficoltà a riconoscere le persone care.

Il decorso della malattia necessita di essere monitorato ogni sei mesi ( o a cadenza annuale, a seconda della velocità del decadimento delle funzioni cognitive) attraverso la somministrazione di test neuropsicologici che indagano, attraverso l' analisi della prestazione del soggetto ai test, le funzioni preservate e quelle in decadimento.

Qual è l'impatto dell' AD sui familiari?

Per prima cosa è importante informare i familiari sul possibile decorso della malattia al fine di prepararli alle prossime manifestazioni attese e spiegare, cosa fondamentale, che i farmaci in commercio NON CURANO la malattia, ma sono utili per diminuire l' impatto dei sintomi.

Ciò che si riscontra maggiormente attraverso i colloqui con i familiari dei soggetti affetti da AD è una forte frustrazione che essi provano nell' impossibilità di gestire una situazione così complessa e di poter badare in prima persona al familiare malato per questioni familiari o lavorative e avere la sensazione di non riuscire ad essere dei care-givers efficienti. Spesso è necessario delegare e affidare il proprio marito o la propria moglie, madre o padre, ad una persona esterna perchè se ne prenda cura al meglio, senza essere assaliti dal senso di colpa di "abbandonare" il proprio caro.

Molto spesso dai racconti dei familiari si evince la sensazione che il malato sia cambiato; questo genera una forte sensazione di tristezza e rassegnazione che deve essere accolta dallo psicologo che ha il compito di riferire loro che questi tipi di patologie non alterano la personalità, ma la mostrano.
Un uomo che è sempre stato tranquillo, non agitato, non mostrerà maggiormente disturbi comportamentali sul fronte della disinibizione, ma piuttosto il suo comportamento sarà per lo più apatico.
I disturbi comportamentali, che sono quelli che più mettono in crisi i familiari che "non riconoscono più il loro caro", oscillano su un continuum che va da un versante apatico ad uno euforico, agitato e disinibito.
Queste informazioni, che possono essere giudicate come superflue, sono invece fondamentali per fornire ai familiari una maggiore comprensione di ciò che sta accadendo.
Altro aspetto che genera una forte frustrazione nei care-givers è l' incapacità del malato di riconoscerli: questo "disconoscimento" del proprio ruolo di figlio o coniuge provoca una rassegnazione che ha un impatto molto forte e che spesso sfocia in comportamenti aggressivi e non comprensivi nei confronti del soggetto malato.

Come affrontare l' AD?


Come ho già accennato nelle righe precedenti, non ci sono farmaci in commercio che curano la malattia, ma possono piuttosto diminuire l' impatto dei sintomi nella daily-life.

Ciò che risulta utile al malato AD è quello di condurre una vita stimolante, promuovendo la socialità cercando di contrastare il ritiro sociale, non sentirsi un peso per la propria famiglia e avere il supporto necessario per svolgere una vita dignitosa.

I familiari, invece, hanno l' arduo compito di soddisfare le richieste, contrastare quelle inopportune, organizzare al meglio la vita del proprio caro, anche assumendo una persona esterna che si occupi della maggioranza delle faccende: lavarli, nutrirli ed essere di compagnia.



Insomma, l' AD è una malattia per chi ne è affetto e un duro fardello da portare per chi deve prendersene cura, ed è per tale motivo che in questo spazio online vorrei rispondere alle vostre domande in questione rispetto a tutte le curiosità e\o perplessità.




Dott.ssa Fabrizia Tudisco









Cos' è il Mind Corner?



Il Mind Corner nasce dall' intento di creare sul web uno spazio in cui tutti possono confrontarsi in materia di psicologia, raccogliendo i vari ambiti della stessa e cercando di rispondere ai quesiti della psicologia che più incuriosiscono la maggioranza delle persone tra cui appassionati, professionisti e curiosi. 

Da sempre la nostra mente e i processi psicologici e cognitivi che garantiscono il nostro funzionamento sono oggetto di studio, ricerche e domande che sempre più frequentemente, nonostante le difficoltà di approccio, trovano risposte grazie ai professionisti che lavorano nel settore.

Sempre maggiori sono gli ambiti in cui la psicologia lavora portando risultati riconosciuti dalla scienza. Il mio intento è quello di proporre, attraverso questo blog, uno spazio online in cui tutti possono confrontarsi e porre domande, riguardanti i vari ambiti, rispetto ai propri interessi professionali e personali.

Il secondo obiettivo che ripropongo, in quanto psicologa, è quello di rispondere alle domande di coloro i quali, senza temere di incorrere in un giudizio personale da parte dei lettori, si trovano ad affrontare cambiamenti significativi che spesso stravolgono la percezione di noi stessi e il modo in cui ci confrontiamo con gli altri: diventare genitori, cambiare lavoro, sostenere esami che possono portare ad uno stato di ansia, separazione coniugale, perdita di persone care, difficoltà comunicative, deficit cognitivi, abuso di sostanze e dipendenze. 

Il Mind Corner si propone di essere uno spazio di condivisione e di presa di coscienza che, nonostante gli sforzi che facciamo per camminare autonomamente facendo affidamento esclusivamente sulle nostre gambe, a volte possiamo ricorrere all' aiuto di qualcuno, facendo leva sia sulla competenza di un professionista, che sul confronto con altre persone con problematiche affini alle nostre. Credo infatti, sulla base della mia esperienza professionale, che il gruppo sia terapeutico per portar fuori i disagi garantendo la consapevolezza di non essere soli. Scoprirete infatti che, nonostante le apparenze, molte più persone di quante crediamo sentono la necessità di aprirsi e chiedere aiuto. 

Chiedere aiuto non è sintomo di debolezza, ma è piuttosto un momento di crescita che ci aiuta a prendere coscienza del fatto che talvolta le persone possono rivelarsi utili più di quanto ci si aspetti.



Spero di esservi di aiuto al più presto rispondendo alle vostre domande. 

Dott.ssa Fabrizia Tudisco.